Tortora: Le tradizioni
Le fiere
La féra' era la mostra mercato dei paesi che si faceva due o tre volte all'anno in occasione delle
feste più importantil tra le quali quella patronale. Era indispensabile per la compra-vendita di attrezzi di lavoro e domestici e, soprattutto, di animali.
A Tortora c'era la fiera per S. Biagio e per S. Antonio. Fino agli anni quaranta aveva luogo 'Mballatùrru' e lungo la via per 'Matriddòmini . Successivamente trovò la sua sede 'annu Pondi' e 'annu vaddòni di lu Pondi'. A Praia a Mare si svolgeva il 15 agosto nei vasti arenili della spiaggia.
Ognuno attendeva queste occasioni per rifornirsi degli attrezzi di ferro (zappe, zappette, forconi, coltelli ecc.), di legno (forconi e vari), di vimini (panieri, ceste, cestelli, cestini, canestri, corbe da basto, ect); per comprare asini, maiali, buoi, vacche, mucche, capre, pecore, pollami, ecc. o per disfarsi degli animali vecchi o difettosi.
A Tortora c'era la fiera per S. Biagio e per S. Antonio. Fino agli anni quaranta aveva luogo 'Mballatùrru' e lungo la via per 'Matriddòmini . Successivamente trovò la sua sede 'annu Pondi' e 'annu vaddòni di lu Pondi'. A Praia a Mare si svolgeva il 15 agosto nei vasti arenili della spiaggia.
Ognuno attendeva queste occasioni per rifornirsi degli attrezzi di ferro (zappe, zappette, forconi, coltelli ecc.), di legno (forconi e vari), di vimini (panieri, ceste, cestelli, cestini, canestri, corbe da basto, ect); per comprare asini, maiali, buoi, vacche, mucche, capre, pecore, pollami, ecc. o per disfarsi degli animali vecchi o difettosi.
Partecipavano alle fiere i montanari di Tortora, gente
di Trecchina, di Lauria, di Laino con i loro animali e prodotti, con i loro lavori in vimini, nonché mercanti e zingari con i loro lavori in ferro.
Le fiere non offrivano solo opportunità di affari ma anche di incontri interessanti che permettevano la conoscenza di persone diverse con le loro lingue, culture e abbigliamenti. 'li furìsì" scendevano vestiti di tutto punto dei loro abiti in velluto anche in piena estate.
Le donne dei paesi vicini mettevano in mostra le loro formosità prorompenti, sotto i loro indumenti dai colori vivaci. Vestivano larghe gonne pieghettate, aderenti corpetti e fazzolettoni in testa annodati dietro la nuca. Mariti insoddisfatti e scapoli, giovani e non, andavano alla fiera non per acquisti ma per andare a boccheggiare di fronte a queste bellezze.
Le fiere non offrivano solo opportunità di affari ma anche di incontri interessanti che permettevano la conoscenza di persone diverse con le loro lingue, culture e abbigliamenti. 'li furìsì" scendevano vestiti di tutto punto dei loro abiti in velluto anche in piena estate.
Le donne dei paesi vicini mettevano in mostra le loro formosità prorompenti, sotto i loro indumenti dai colori vivaci. Vestivano larghe gonne pieghettate, aderenti corpetti e fazzolettoni in testa annodati dietro la nuca. Mariti insoddisfatti e scapoli, giovani e non, andavano alla fiera non per acquisti ma per andare a boccheggiare di fronte a queste bellezze.
Il fidanzamento
Sia che l'iniziativa partisse dalle famiglie, sia che partisse dagli innamorati, il fidanzamento ufficiale era un affare familiare che doveva svolgersi secondo una procedura
ritualizzata.
Al corteggiamento a distanza con sguardi furtivi in chiesa nel corso
della messa solenne della domenica con l'accompagnamento distanza
a casa della ragazza scortata dalla
madre, doveva seguire una richiesta ufficiale: 'li mascieati'.
La famiglia del giovane mandava due persone a casa della ragazza per chiedere la mano ai suoi genitori pronunciando quasi sempre lo stesso rituale. Di solito si trattava di due donne estranee alla famiglia, parenti o no del ragazzo, ma potevano essere eccezionalmente anche uomini o gli stessi genitori del pretendente se i rapporti tra le famiglie erano già stretti. La domenica successiva era tradizione che i genitori del fidanzato facessero visita ai genitori della fidanzata con un dono in un cestino foderato e coperto da fini tovagline. Lincontro serviva anche per definire l'aspetto economico della futura unione
Da quel momento il giovane era autorizzato a frequentare la casa della fidanzata, ma non poteva toccarla. Tra lui e lei doveva sempre sedere un altro familiare della ragazza.
Il fidanzamento era ufficializzato agli occhi della gente quando veniva permesso al giovane di accompagnare la fidanzata in chiesa per la messa solenne delle feste, seguiti a pochi passi di distanza dai familiari di lei per sorvegliarli che non si toccassero.
La famiglia del giovane mandava due persone a casa della ragazza per chiedere la mano ai suoi genitori pronunciando quasi sempre lo stesso rituale. Di solito si trattava di due donne estranee alla famiglia, parenti o no del ragazzo, ma potevano essere eccezionalmente anche uomini o gli stessi genitori del pretendente se i rapporti tra le famiglie erano già stretti. La domenica successiva era tradizione che i genitori del fidanzato facessero visita ai genitori della fidanzata con un dono in un cestino foderato e coperto da fini tovagline. Lincontro serviva anche per definire l'aspetto economico della futura unione
Da quel momento il giovane era autorizzato a frequentare la casa della fidanzata, ma non poteva toccarla. Tra lui e lei doveva sempre sedere un altro familiare della ragazza.
Il fidanzamento era ufficializzato agli occhi della gente quando veniva permesso al giovane di accompagnare la fidanzata in chiesa per la messa solenne delle feste, seguiti a pochi passi di distanza dai familiari di lei per sorvegliarli che non si toccassero.
La panificazione
Fino agli anni '50 ogni famiglia tortorese panificava in casa. ll procedimento aveva inizio con la macinatura del grano in uno dei due mulini funzionanti lungo la Fiumarella: uno era in località 'Gramijùolu' vicino al 'Pondi d'Ajìta', l'altro 'ànnu Livìtu, i sacchii erano portati in testa dalle donne o a dorso d'asino.
Nei giorni precedenti si procuravano delle fascine di frasche secche e di erica (ruséddi).
La panificazione vera e propria avveniva in casa. All'alba la padrona di casa nelle famiglie contadine, o la donna di servizio o una donna a giornata nelle famiglie signorili, si metteva in opera per cernere con uno staccio la farina direttamente nella madia. Fatta una conca nella farina si aggiungeva il sale, si versava acqua tiepida e si scioglieva il lievito, un piccolo pane crudo preso dall'impasto lievitato della panificazione precedente. A poco a poco, con il lievito così diluito, amalgamava tutta la farina, continuando a lavorare il miscuglio con i pugni fino ad ottenere un impasto omogeneo. Quando tutti i pani erano sistemati nel forno, ridava un altro po' di calore e si sigillava la bocca con il chiusino di lamiera (mésa).
Dopo alcune ore, a cottura avvenuta si tirava fuori le 'panelle' (panéddi) e venivano sistemate su un tavolo per il raffreddamento. Le "pitte" servivano parte per il consumo immediato della famiglia e parte erano distribuite a parenti e vicini con l'obbligo di scambio quando a loro volta panificavano . Le ciambelle erano date ai poveri.
Nei giorni precedenti si procuravano delle fascine di frasche secche e di erica (ruséddi).
La panificazione vera e propria avveniva in casa. All'alba la padrona di casa nelle famiglie contadine, o la donna di servizio o una donna a giornata nelle famiglie signorili, si metteva in opera per cernere con uno staccio la farina direttamente nella madia. Fatta una conca nella farina si aggiungeva il sale, si versava acqua tiepida e si scioglieva il lievito, un piccolo pane crudo preso dall'impasto lievitato della panificazione precedente. A poco a poco, con il lievito così diluito, amalgamava tutta la farina, continuando a lavorare il miscuglio con i pugni fino ad ottenere un impasto omogeneo. Quando tutti i pani erano sistemati nel forno, ridava un altro po' di calore e si sigillava la bocca con il chiusino di lamiera (mésa).
Dopo alcune ore, a cottura avvenuta si tirava fuori le 'panelle' (panéddi) e venivano sistemate su un tavolo per il raffreddamento. Le "pitte" servivano parte per il consumo immediato della famiglia e parte erano distribuite a parenti e vicini con l'obbligo di scambio quando a loro volta panificavano . Le ciambelle erano date ai poveri.
Lavorazione dei salami
Un'arte molto antica. La riuscita della lavorazione dipendeva da una sensibilità che si tramandava
attraverso l'esperienza e la pratica.
Le salsicce (zazìcchji). Le donne addette, sedute attorno ad una tavola, tagliuzzano a pezzettini la carne dei tagli di seconda scelta e grasso, aggiungendo del sale nella giusta dose, peperone secco tritato o macinato, finocchio a grani. Rimestando e lavorando a mano il tutto fino ad omogeneizzarlo, ne friggevano una piccola quantità e l'assaggiavano per varutare la salatura e l'equilibrio degli aromi. Se necessario apportavano le opportune correzioni. Quando ritenevano che gli ingredienti fossero nelle giuste proporzioni, insaccavano a mano la pasta di carne così preparata nell'intestino tenue precedentemente lavato e rivoltato del maiale, servendosi di appositi imbuti. La riuscita del salame dipendeva pure dalla pressatura dell'impasto senza lasciare all'interno del salame nessuna sacca d'aria. A guesto scopo di tanto in tanto si traforava con una forchetta l'intestino ripieno, per favorire la fuoruscita dell'aria.
Le soppressate (zupirséati) . Subito dopo le salsicce, ripulita la tavola, le donne tagliuzzavano in pezzettini nelle giuste dimensioni, la carne dei tagli di prima scelta e grasso di prima qualità, aggiungono sale e pepe nero a grani. Rimestano e lavorano a mano il tutto fino ad omogeneizzarlo, ne friggevano una piccola quantità e l'assaggiano per valutare la salatura e l'equilibrio dell'aroma.
Quando ogni componente era ritenuto essere nella gìusta proporzione, insaccavano a mano la pasta di carne nell'intestino crasso precedentemente lavato, sterilizzavano e rivoltavano servendosi di appositi imbuti. La buona riuscita del salame dipendeva anche dalla pressatura dell'impasto.
Una volta insaccati, i salami venivano appesi a pertiche sospese sotto le travi in ambiente molto ventilato, freddo e asciutto, opportunamente affumicato da legna di elce o quercia. Tutti i salami venivano consumati nell'arco massimo di 12 mesi.
Le salsicce (zazìcchji). Le donne addette, sedute attorno ad una tavola, tagliuzzano a pezzettini la carne dei tagli di seconda scelta e grasso, aggiungendo del sale nella giusta dose, peperone secco tritato o macinato, finocchio a grani. Rimestando e lavorando a mano il tutto fino ad omogeneizzarlo, ne friggevano una piccola quantità e l'assaggiavano per varutare la salatura e l'equilibrio degli aromi. Se necessario apportavano le opportune correzioni. Quando ritenevano che gli ingredienti fossero nelle giuste proporzioni, insaccavano a mano la pasta di carne così preparata nell'intestino tenue precedentemente lavato e rivoltato del maiale, servendosi di appositi imbuti. La riuscita del salame dipendeva pure dalla pressatura dell'impasto senza lasciare all'interno del salame nessuna sacca d'aria. A guesto scopo di tanto in tanto si traforava con una forchetta l'intestino ripieno, per favorire la fuoruscita dell'aria.
Le soppressate (zupirséati) . Subito dopo le salsicce, ripulita la tavola, le donne tagliuzzavano in pezzettini nelle giuste dimensioni, la carne dei tagli di prima scelta e grasso di prima qualità, aggiungono sale e pepe nero a grani. Rimestano e lavorano a mano il tutto fino ad omogeneizzarlo, ne friggevano una piccola quantità e l'assaggiano per valutare la salatura e l'equilibrio dell'aroma.
Quando ogni componente era ritenuto essere nella gìusta proporzione, insaccavano a mano la pasta di carne nell'intestino crasso precedentemente lavato, sterilizzavano e rivoltavano servendosi di appositi imbuti. La buona riuscita del salame dipendeva anche dalla pressatura dell'impasto.
Una volta insaccati, i salami venivano appesi a pertiche sospese sotto le travi in ambiente molto ventilato, freddo e asciutto, opportunamente affumicato da legna di elce o quercia. Tutti i salami venivano consumati nell'arco massimo di 12 mesi.